03 Nov
03Nov

Nell’ambito degli studi sulla storia, la società e sui credi spirituali legati al Sol Levante trova sempre risalto il cosiddetto concetto di purezza, legato indissolubilmente al tema della morte, così come trova ampio spazio il tema della “razza” portato avanti in modo specifico a partire dal 1800 e per tutto il ‘900.

Sebbene queste tematiche possano risultare di difficile comprensione o persino appartenenti ad un paese non civilizzato, queste hanno rivestito e rivestono tutt’ora un ruolo fondamentale per la società nipponica che, fin dall’introduzione nel Paese di elementi confuciani, ha visto le varie classi sociali definirsi e determinarsi in base alla posizione e soprattutto al lavoro svolto.

Al vertice della piramide sociale, Imperatore a parte, c’erano i Samurai, successivamente gli agricoltori e poi i commercianti, mentre nei gradini più bassi troviamo i burakumin ed infine i cosiddetti hinin, termine che significa letteralmente non umani e che indicava i reietti della società, come i mendicanti.

Partendo però con ordine, iniziamo un breve viaggio nel mondo e nel concetto della purezza andando a parlare, per comprendere meglio l’argomento, del cadavere che, di per sé, fa immediatamente pensare all’impurità più profonda, infatti, mentre nel corpo vivo le forme parziali di impurezza derivano da situazioni non definitive, ad esempio la secrezione proveniente dal corpo può essere pulita e per questo l’anormalità del momento o della situazione può ancora essere reversibile e può essere conclusa attraverso il rito di purificazione; nel cadavere questo è impossibile in quanto si arriva a toccare l’apice di una situazione irreversibile, il corpo è ormai privo di vita ed è destinato a disintegrarsi completamente tornando all’eterno totale.

Il concetto della morte inteso come il momento in cui la vita si spegne non è considerato impuro, ma rappresenta un momento della vita ovvero la sua conclusione; ad essere impuro è lo stadio successivo e definitivo ovvero il momento in cui il cadavere è in putrefazione ed è proprio questo elemento che crea confusione nell’armonia e nella società stratificata e organizzata.

La pericolosità insita nel corpo in decomposizione, però, non si riflette solo dal punto di vista della sua impurità, ma esso rappresenta anche un corpo nuovo, che potrebbe far emergere tutti quei gruppi emarginati dalla società stratificata e che potrebbe, quindi, mettere in crisi l’intero potere sociale e la stratificazione conosciuta.

Per cercare di dare un senso compiuto agli occhi di un europeo, proviamo per un attimo a pensare al Carnevale che di per sé potrebbe sembrare un controsenso, ma andando a sondare l’iconografia e il simbolismo nascosto dietro questo evento ricorrente ogni anno, possiamo notare come le persone e il loro mascherarsi rappresentino comportamenti trasgressivi codificati. Questa ricerca dell’impurità, dello scherzo e dello scherno nei confronti delle autorità risponde alla precisa esigenza di liberarsi degli schemi e sperimentare nuove esperienze sociali e a tal proposito, il Potere concede che questa festa avvenga, ma a patto che si concluda presto e attraverso il rogo del fantoccio che rappresenta, appunto, il cadavere e simboleggia il ritorno alla normalità.

Tenendo questo esempio come punto saldo entriamo ora all’interno della cultura nipponica, che non solo nega la realtà del cadavere emarginando il corpo stesso e relegandolo nel cimitero come accade in tutto il mondo, ma esclude anche tutte quelle persone che gravitano attorno ad esso, per esempio chi di mestiere si deve occupare della vestizione della salma ecc. ed è proprio in questo contesto che emerge la figura del Burakumin (部落民) ovvero un gruppo sociale storicamente segregato sotto l’appellativo di Burakumin Mondai (部落民問題) in quanto il loro compito è sempre stato quello di occuparsi della conciatura della pelle o della macellazione degli animali.

Avendo quindi a che fare con la carne e con la morte, essi rappresentano il gravitare intorno al cadavere e quindi all’oggetto più impuro di tutto il credo shintoista, inoltre la loro discriminazione si pone anche nei concetti buddhisti secondo cui l’uccisione degli animali è considerata moralmente deprecabile ma quello che potrebbe lasciare sbigottito il lettore è che questa casta era persino considerata non umana tanto da non essere presente in nessun censimento a partire dal Periodo Tokugawa (1603 – 1868) che li costringeva, tra le altre cose, a mantenere il loro status impuro ed il loro lavoro seguendo la linea generazionale, in sostanza, chi apparteneva a questa casta per lavoro così come i figli nati da genitori Burakumin erano destinati ad appartenere a questa classe per tutta la vita, senza possibilità di uscirne né da un punto di vista lavorativo né sociale.

Queste persone, inoltre, furono allontanate da città e villaggi e con il passare del tempo furono costretti a creare dei nuovi insediamenti in cui la loro comunità era autonoma ed organizzata, di fatti, il termine Burakumin significa proprio “abitanti dei villaggi”, in aggiunta a partire dal Periodo Meiji (1868 – 1912) la loro casta subì maggiori discriminazioni basate non solo sull’occupazione, ma anche sulla loro discendenza e sulla possibilità di contrarre matrimoni con persone non appartenenti alla medesima casta.

Il 1871 segnò un anno di svolta ancora più negativa per i Burakumin in quanto i privilegi accordati loro durante il precedente Periodo Tokugawa, come la possibilità di amministrarsi e l’esenzione dal pagamento delle tasse sulla terra, furono eliminati costringendoli ad una pesante pressione fiscale che gli impedì, tra le altre cose, di aprire delle imprese, inoltre, vennero promulgate ulteriori leggi discriminatorie che questa volta toccavano le forme d’impiego.

A causa di tutte queste politiche e di questa discriminazione portata avanti ormai da oltre duecento anni, sul finire degli anni settanta dell’ottocento nella comunità di Burakumin si formarono dei gruppi per discutere su alcune idee liberali portate avanti dal Movimento per la libertà e i diritti del popolo, in quanto il desiderio comune era quello di creare un gruppo su base nazionale a tutela di queste classi emarginate e nel 1903 in occasione della prima conferenza nazionale dei Burakumin a Osaka, parteciparono oltre trecento persone provenienti da tutte le prefetture del Giappone.

Furono però gli sconvolgimenti politico sociali del Periodo Taishō (1912 – 1926) a permettere ai Burakumin di prendere parte ad una rete di movimenti tra cui i moti per il riso del 1918, inoltre, nel 1922 fu istituita la Suiheisha ovvero l’Associazione nazionale dei livellatori, formalmente apartitica ma influenzata dalle teorie marxiste, il cui manifesto recava lo slogan: “Burakumin di tutto il paese, unitevi!”. Proprio grazie all’associazione Suiheisha venne creato, a partire dal 1946, il Comitato nazionale per la liberazione dei Burakumin ad opera di Matsumoto Jichirō e Asada Zennosuke che, con l’appoggio della maggior parte dei partiti di centro sinistra, iniziarono una propaganda inversa rispetto a quella che aveva contraddistinto questa casta nel passato. Nonostante un inizio burrascoso e piuttosto in salita, a partire dagli anni cinquanta l’associazione iniziò a lavorare a stretto contatto con le amministrazioni locali andando ad ottenere un lieve ma reale miglioramento delle condizioni di vita dei Burakumin anche attraverso lo stanziamento di finanziamenti e la promulgazione di progetti urbanistici. Nel 1955 il Comitato prese formalmente il nome di Lega per la liberazione dei Burakumin, Buraku kaihō dōmei.

Grazie all’influenza politica esercitata a livello nazionale ed al legame con i partiti comunista e socialista, la Lega chiese formalmente lo studio e la messa in atto di un piano nazionale volto a migliorare le condizioni di vita della comunità Burakumin senza ottenere, però, l’attenzione del mondo politico e per questo il dibattito venne spostato immediatamente su tutte le radio e le tv del Giappone, tanto che in un discorso dell’11 marzo 1958 il Primo Ministro Kishi Nobusuke espresse il desiderio che tutte le discriminazioni nei confronti di questa casta cessassero nell’immediato.

Il tumulto sociale che si venne a creare portò l’allora governo in carica a fondare il Comitato per le politiche d’assimilazione e nel 1959 vennero erogati dei fondi governativi verso le comunità considerate esemplari anche se le forze di opposizione la considerarono come una mera manovra simbolica e senza senso.

Dobbiamo attendere fino al 1960 per vedere la creazione di una commissione speciale d’inchiesta sulla questione dei Burakumin che impiegò ben cinque anni per analizzare a fondo il problema e presentare dei risultati divisi in due differenti sezioni: la prima costituita dalla storia di questa classe sociale in cui veniva specificato che i Burakumin non erano etnicamente distinti dalla popolazione nipponica; la seconda costituita dai risultati dell’indagine in cui si evidenziava come questa casta fosse costretta a vivere, ad esempio, relegata, isolata e senza sistema fognario, elettrico e stradale, di come i terreni fossero instabili e soggetti a continui allagamenti e di come la loro scolarizzazione fosse ben al di sotto della media nazionale e questo comportava anche la mancanza di lavoro e la precarietà sanitaria.

Grazie a quest’inchiesta, venne scritta e ratificata la Dōwa taisaku tokubetsu sochihō ovvero la Legge sulle misure speciali per l’assimilazione, il cui scopo era la riforma ed il miglioramento di sette categorie: ambiente fisico, sanitario, la promozione del sistema agricolo, del sistema imprenditoriale, del lavoro in generale, della scolarizzazione e dei diritti umani.

Al fine di permettere alla comunità di beneficiare del programma, sorse il problema dell’identificazione delle famiglie Burakumin fino ad allora mai censite ufficialmente e per questo si decise che nelle aree toccate dalle misure si sarebbe creato un Comitato incaricato di vagliare le richieste ed esaminare i vari candidati. Il governo prese formalmente in carico la questione e rinnovò i sussidi e il progetto fino al 2002, anno di termine dei lavori che non coincise, però, con la totale risoluzione del problema legato ai Burakumin anche se i sondaggi evidenziarono dei cambiamenti positivi rispetto alle politiche discriminatorie del passato. In ogni caso, con l’avvento dell’era di internet le discriminazioni non si fermarono e sono presenti ancora oggi toccando questa casta ora coinvolta in “forzate” politiche matrimoniali; la circolazione di liste clandestine, infatti, favorisce l’esclusione di queste persone ed arriva a ledere anche individui non Burakumin che risiedono, però, negli stessi quartieri o nelle stesse aree.

Come si può intuire, quindi, anche se degli interventi a livello politico e legale sono stati portati avanti, non è possibile parlare di una soluzione definitiva al problema dei Burakumin che si potrà avere solo quando si sarà prodotto un cambiamento a livello sociale e di percezione nei confronti di quelle categorie considerate impure o, ancora, non umane come accadde per il popolo primigenio del Giappone ovvero gli Ainu.

In pochi lo sanno, ma i giapponesi, per come li conosciamo noi oggi, non sono gli “indigeni” o gli abitanti primigeni del Giappone, prima di loro, infatti, esistevano gli Ainu, abitanti autoctoni dell’arcipelago del Sol Levante le cui origini sono ancora oggi avvolte dal mistero, celato ormai da millenni di storia; ma quello che sappiamo su di loro è che per qualche tempo gli Ainu hanno convissuto con i giapponesi, finché questi non riuscirono a spingerli verso nord, in quella zona che noi oggi conosciamo con il nome di Hokkaido.

La teoria della provenienza continentale degli Ainu sembra confermata anche dal fatto che la parola Ainu che indica il mare di Ochotsk sia traducibile come Makun-rep, che significa "mare lasciato indietro, mare antico".

Sempre secondo gli studiosi questo popolo era più che altro dedito alla caccia, la raccolta e la pesca; erano soliti vivere in piccoli insediamenti posti l’uno a parecchia distanza dall’altro, ma l’area del loro insediamento era piuttosto estesa: dalle isole del Giappone a Sachalin passando alle isole Curili per arrivare poi a sud della Kamchatka.

Secondo le cronache ed i ritrovamenti, la loro sopravvivenza iniziò ad essere messa in discussione con l’arrivo delle tribù mongole a partire dal III millennio a.C. quando, mischiatisi e sparsi nell’area estremo orientale, finirono per diventare gli antenati dei giapponesi che conosciamo noi oggi. I nuovi coloni, infatti, finirono per sostituire in numero le tribù Ainu e portarono nel Sol Levante insediamenti stabili in cui la maggiore fonte di sostentamento era l’agricoltura ed in particolare la coltura del riso che consentiva ad un numero sempre maggiore di persone di nutrirsi. A causa di questo brusco cambiamento, gli Ainu furono costretti a migrare verso nord, lasciando le loro terre ancestrali ai nuovi colonizzatori.

Questo popolo venne definitivamente esiliato solo con il fortificarsi dei nuovicolonizzatori che li spinsero, appunto, nell’isola di Hokkaido in cui vivono ancora oggi.

A causa della dura repressione subita nel corso della storia, oggi, la popolazione Ainu non vive assorbita dalla cultura del Sol Levante, ma si trova relegata nei cosiddetti Kotan ovvero villaggi tribali situati lungo le coste o i fiumi.

La loro struttura si regge sulla presenza di un Capo denominato Kotankorokur, scelto per le sue particolari abilità nella caccia e nella pesca o per la sua appartenenza ad una famiglia particolarmente importante.

Gli usi, i costumi e le tradizioni Ainu sono tramandate ancora oggi oralmente e le famiglie sono di tipo nucleare quindi simili a quelle occidentali.

Secondo le tradizioni, maschi e femmine fanno il loro ingresso nella società adulta a partire dai 15 anni e dopo aver partecipato ad una cerimonia solenne in cui si devono vestire con gli abiti tradizionali Ainu e per gli uomini è imposta la crescita della barba, simbolo per eccellenza di saggezza e virilità.

Le donne, invece, hanno l’obbligo di tatuarsi le mani, le braccia e le labbra come simbolo del loro prestigio a livello sociale e che le indicava come pronte al matrimonio.

Oggi sul suolo giapponese le persone appartenenti a questo ceppo, considerandosi dei fuori casta, vivono per lo più isolati o ancora rifiutano le loro origini e cercano di nasconderle in modo da conformarsi ed assimilarsi alla società, inoltre, a causa dei secoli di discriminazione subita, oggi la popolazione Ainu ha perso completamente la Lingua parlata anche se viene tramandata e studiata ancora oggi grazie a degli studiosi, non appartenenti a questa etnia, che hanno deciso di trascrivere ed apprendere il loro sistema fonetico, grammaticale e lessicale

Se quanto presentato fino ad ora riguarda politiche discriminatorie incentrate sulla storia antica e sulla vita spirituale e riguardano il concetto di impurità presente nel contesto religioso, non possiamo non citare le discriminazioni che vedono coinvolto l’intero apparato giapponese e che riguardano, invece, il concetto di “razza”, arrivate persino a sfociare in vere e proprie politiche eugenetiche le cui vittime, oggi, chiedono giustizia ed un risarcimento.

Proprio al fine di “migliorare la razza”, negli anni dell’immediato dopoguerra, durante la faticosa ricostruzione del Paese flagellato dalla II Guerra Mondiale ed in particolare dalle bombe atomiche, il governo decise di varare ed attuare tutta una serie di leggi che consentivano sperimentazioni eugenetiche volte al cosiddetto “sano” sviluppo sociale.

Partiamo però dalla definizione “da dizionario” del termine eugenetica:

“Disciplina nata verso la fine dell'Ottocento che, basandosi su considerazioni genetiche e applicando i metodi di selezione usati per animali e piante, si poneva l'obiettivo del miglioramento della specie umana; la difficoltà nell'individuazione dei caratteri ereditari e l'indeterminatezza del concetto di miglioramento genetico, soggetto a interpretazioni preconcette come dimostrato storicamente, ne hanno determinato il declino; attualmente un diverso approccio eugenetico è ravvisabile nella possibilità di trattamento delle malattie ereditarie attraverso l'ingegneria genetica ( e. negativa ).”

 Sebbene questo possa sembrare anacronistico o un madornale errore storico, politiche di questo tipo furono già portate avanti durante gli anni della guerra ed in particolare grazie ai contatti che l’Impero del Sol Levante e l’Unità 731 intrattennero con la Germania nazista e Mengele, anche se la vicenda di cui andremo a scrivere risulta drammaticamente più recente.

Questo programma governativo entrò formalmente in vigore a partire dal 1948 e venne portato avanti fino al 1996, quando il Paese raggiunse il suo massimo grado di sviluppo economico ed entrò formalmente a far parte della schiera dei cosiddetti paesi civili e democratici il cui scopo avrebbe dovuto essere quello di salvaguardare il benessere della cittadinanza ed abolire ogni sorta di differenza all’interno della società.

Nonostante le premesse che dovrebbero appartenere ad uno stato moderno, il Giappone costrinse ben 25.000 persone già portatrici di disabilità ereditaria a subire procedure chirurgiche di sterilizzazione, un po’ come quelle che videro coinvolti i nativi americani quando furono soggetti alle medesime torture perpetrate dai cowboy mai ufficialmente riconosciute dai libri di storia ufficiali e come loro, anche i civili giapponesi furono costretti a subire questi interventi sia attraverso l’uso della violenza e della minaccia sia attraverso l’inganno.

Le vittime di questi esperimenti eugenetici, con il passare del tempo, decisero di portare alla luce la loro esperienza ed una di queste, Saburo Kita decise di accusare pubblicamente il governo raccontando di essere stato sottoposto all’intervento all’età di quattordici anni, senza però sapere a cosa stesse andando incontro e senza quindi la possibilità di scegliere autonomamente il suo destino, anche se la libera scelta all’epoca non era assolutamente contemplata in quanto non prevista dalla legge vigente.

La stessa cosa accadde ad una donna residente nella prefettura di Sendai, oggi sessantenne, che all’epoca venne sottoposta alla chiusura forzata delle tube di Falloppio a causa di una malformazione genetica a livello di apprendimento riscontrata quando aveva soli quindici anni.

Nei documenti presentati tramite il suo avvocato risulta, tra l’altro, che lo stesso giorno in cui la donna subì l’operazione chirurgica altri pazienti giovanissimi, di 9 e 10 anni avevano subito la stessa sorte.

Dalle testimonianze depositate presso il tribunale si è scoperto che nel periodo dal 1963 al 1986 furono stilati elenchi contenenti nomi, indirizzi ed età dei soggetti sterilizzati nel territorio della sola prefettura di Sendai, nonché le diagnosi utilizzate per giustificare le operazioni. Degli 859 individui identificati tramite la documentazione: 320 erano maschi, 535 erano femmine, mentre l’età e i sessi di quattro individui non erano stati divulgati per impedirne l’identificazione.

A tal proposito si rende necessario ricordare che la medesima cosa accadde anche in Europa e non solo nella Germania nazista, ma in Svezia e ben prima dell’ascesa al potere di Adolf Hitler.

La legge dai fini eugenetici autorizzava, in sostanza, la sterilizzazione di persone con disabilità mentali e malattie o disturbi ereditari per prevenire nascite di figli considerati «inferiori», inoltre rendeva legale gli aborti forzati. La Svezia, considerata allora come oggi civile e democratica, condusse politiche eugenetiche su larga scala e la legge per selezionare la razza rimase in vigore per ben 41 anni, dal 1935 al 1976, e le vittime della sterilizzazione forzata sono state circa 60.000.

La Società Svedese per l’Igiene Razziale, organo preposto a tal fine, venne fondata a Stoccolma nel lontano 1909 con un obiettivo da perseguire, ovvero quello di preservare «il ceppo popolare svedese dall’incrocio con elementi razziali stranieri ritenuti di qualità inferiore, oltre che di ostacolare l’accesso in Svezia di elementi estranei indesiderati». Da considerare che è proprio a questa istituzione che si ispirarono i nazisti quando fondarono a Berlino nel 1927 l’Istituto Kaiser Wilhelm di Antropologia finanziato, tra l’altro, anche dalla Fondazione Rockfeller la cui missione ufficiale era quella di «promuovere il benessere umano nel mondo».

Le vittime giapponesi di queste politiche eugenetiche, inoltre, finirono per essere considerate e per considerarsi reietti della società o dei fuori casta, proprio come accadde per i Burakumin, e solo in tempi recenti compresero invece di essere un reale e tangibile problema politico. Vinte le varie cause intentate contro il governo e contro le politiche razziali portate avanti per tutto il periodo precedente e post secondo conflitto mondiale, ora le vittime esigono delle scuse formali da parte dello stato che fino ad oggi ha ignorato il problema non accettando la responsabilità dell’accaduto.

Mi chiedo se ai funzionari governativi non interessi se i loro cari siano stati costretti ad essere sottoposti ad interventi chirurgici. Se il governo ammette di essere responsabile e si scusa, le vittime e le loro famiglie potranno capire di non aver torto, e alcuni potrebbero decidere di uscire allo scoperto. Ho deciso di combattere fino alla fine con la mia faccia in pubblico”. Saburo Kita

Articolo di Rossana Carne


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Rossana Carne è nata a Novara nel 1987 ed è laureata in Lingue Orientali e Scienze Internazionali presso l’Università degli Studi di Torino. Scrive poesie, racconti, articoli per un giornale locale e per il suo blog, ama la scrittura ed ogni forma d'arte dalla musica alla pittura. Attualmente è in collaborazione con Enigma Edizioni e Lux-Co Edition International.



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